Guardai il suo altezzoso portamento. Era di spalle, la valigetta nella mano destra, la caduta perfetta dei calzoni eleganti, le scapre lucide. Aveva cinquantacinque anni, canuto pinguino benestante, sporcaccione, con il vizio del pettegolezzo. Come al solito era entrato e senza salutare nessuno si era diretto nel suo grande studio. La soddisfazione mia era immensa. Darla a bere ad un cameriere al ristorante è una cosa, ma servire uno scherzetto ad un avvocatucolo politicante azzeccagarbugli è cosa diversa. Decisamente, quanto grandemente goduriosa. Diciamo che in quel periodo non vivevo d’altro.
I professionisti di ogni risma, che pellegrinavano alla sua scrivania pomposa da provincialotto ottuso, lo chiamavano l’Ernesto. Noi impiegatucole, Avvocato. La A maiuscola la dovevi far sentire bene, altrimenti chi li vedeva gli straordinari in busta paga?
Era sposato con una matrona grassoccia, tutta centro estetico e abluzioni mattutine nel profumo. Andava e veniva altrettanto altezzosa con la sua faccia da mascherone color testa di moro, anche a dicembre.
L’Ernesto aveva un’idea tutta sua delle impiegate. E non te lo mandava a dire. Ogni mese, al 27, era il momento in cui dava letteralmente fuori di matto. Non si spiegava proprio il motivo per cui dovesse pagarci tanto. Per cosa poi? si domandava ad alta voce. In fin dei conti, non fate altro che confabulare e rispondere al telefono tutto il giorno. Era offensivo. Nessuno gli diceva niente. Pazientavamo. Era così quando sono arrivata, e probabilmente lo sarebbe stato anche in seguito. Altro discorso invece erano le praticanti giovani e carine che bazzicavano il suo grande studio. Loro si che erano brave, questo diceva. Peccato che il loro lavoro lo facessimo noi, a sua insaputa per giunta. Nessuna di loro stava a sentire i suoi prezioni insegnamenti: arrivavano da noi con la cartellina rossa, perchè ogni causa aveva una cartellina rigorosamente rossa, la consegnavano a noi e buonanotte. A nessuna di noi andava di fare il lavoro di quelle sbruffoncelle, ma nemmeno ci sfiorava l’idea di rinunciare a fare fesso l’Ernesto.
Quello che pensai il primo giorno di lavoro, davanti a quell’andazzo, era che lo trovavo una via di mezzo tra il teatro dell’assurdo e un film dell’orrore. Mio padre non la vedeva così. La sera stessa del primo giorno di lavoro gli raccontai del delizioso ambiente e del fatto che non intendevo tornarci più. Lui però sentenziò: mai rifiutare un lavoro dal quale si avranno insegnamenti di vita così improtanti. E magari la soddisfazione di metterlo nel sacco un tipo così. Aveva aggiunto: io fossi in te lo troverei divertente e istruttivo.
Aveva ragione.
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