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Aldo Busi.

“Scrivere è profanare, e i ricordi scritti sono ricordi persi”.
Da un’intervista apparsa su La Lettura, inserto del Corriere della Sera.
[…]
Il suo ultimo libro, E baci, l’ha dato alla Società editoriale il Fatto («nessun editore avrebbe avuto il coraggio di pubblicarlo») insieme a Sentire le donne che proprio in questi giorni sta rivedendo e che uscirà a maggio. Ma Busi non cerca un editore, almeno non per i nuovi romanzi, dal momento che conta di non scrivere più (l’aveva annunciato anche prima de El especialista de Barcelona, più di dieci anni fa). Ma non vuole essere paragonato ad altri grandi scrittori che recentemente hanno dato l’addio al libro. «Philip Roth doveva smettere vent’anni fa. Ha scritto certe ciofeche… Fa parlare le bidelle come se fossero uscite da Harvard». Smette di scrivere perché ha scritto abbastanza: «Ho vissuto tutta la vita con questa ossessione, dodici ore al giorno a scrivere e riscrivere, mai contento di me, sono contento di essermene liberato quanto di averla avuta. Tutto il resto è stato un riempitivo. Potevo essere casto, omosessuale, eterosessuale, marzianosessuale, non contava niente. Pur di scrivere mi sono ridotto a vivere: è una grande verità. Altrimenti che racconti? Anche se la scrittura non è la sublimazione di niente. Certo, la mia è stata una vita ratée, mancata. Sul piano esistenziale non ho avuto relazioni, non ho avuto amori, non ho avuto neanche sesso, se ci rifletto, perché è stata una cosa mia, fra me e me. Piacendomi gli uomini, per trovarne uno che appagasse la mia estetica in fatto di virilità, ho dovuto ripiegare su me stesso, e non ho mai smesso di piacermi. Quando mi prendeva capriccio di un’orgia cambiavo mano».
Per leggere tutta l’intervista: qui

Chissà perchè…

… passo ormai così poco tempo tra i blog. Mi piaceva tanto. Io che anni fa scoprii per caso che esistevano e che, grazie ad un collega paziente, capii come aprirne uno. E’ l’effetto allontantamento dalla rete frutto del rutto dei social.

Ci passo perchè mi fa un servizio simile all’rss. Si perchè almeno ho tutto su una “pagina”.  Poi mi sono stancata pure di questo e ora navigo nel limbo, piu che in rete.

Sono anche diventata un po apatica, dato ch enon mi va gran che di leggere cazzate di tutti coloro che credono che la libertà di accesso alla rete e a un qualsiasi “palcoscenico”, non è che da diritto a scrivere la propria opinione. Ma l’ego della gente deve essere davvero enorme. Lo dico con grande invidia, dato che a me l’hanno fatto piccolino piccolino.

Cmq, ho deciso che tra le vagonate di cose in sospeso ancora da fare, ci piazzo anche ricominciare a scrivere e cazzeggiare tra i blog.

Ne ho appena aggiunto uno tra i following. Mi è piaciuto moltissimo un post cui sono arrivata proprio da fb 🙂 Si intitola Tutti dottori e sta qui


C. Dantzig e il suo concetto di capolavoro.

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Da “chi ha paura di una capolavoro” – La Lettura – Corsera – domenica 27 gennaio 2013.


Il vostro film.

Il prete fa del suo meglio per mettere insieme una funzione che non faccia sbadigliare tutti. Prende a descrivere il quartiere, le strade, i negozi. Poi ci invita a guardare la realtà appena descritta come se fossimo arrampicati sul campanile della chiesa dove siamo e che ci sta congelando gli arti inferiori.

Parla, parla. E’ bravo. L’ha congeniata bene la faccenda. Secondo me lo fa la sera di scrivere le prediche in base agli impegni del giorno dopo. Due funerali, un battesimo, la messa, un matrimonio. Deve essere scandita così la sua agenda. Oppure lo fa quando gli viene l’idea, come uno scrittore che riesce a mettere insieme parole interessanti solo quando gli viene l’ispirazione. Così credo che a questo prete ieri sera sia venuta l’ispirazione. Per un cristiano, dice, la morte non va vista lungo la strada, tra i negozi, i passanti, bensì dal campanile, da lì in su. La vita è una parentesi, un passaggio, finisce sempre, va oltre sempre e bisogna riuscire a guardarla da un campanile perchè da esso si vede il cielo, si vede la vita dopo la morte. Quindi, ha continuato, perchè rattristarsi per un passaggio dalla vita a qualcosa che ci porta in cielo a continuare ma in compagnia dei santi eccetera eccetera? Entrava nei dettagli, rapiva l’attenzione di parenti ed amici infreddoliti e mi era pure simpatico se non fosse stato che poi ha aggiunto una parentesi sulla bontà dei cristiani, su quanti si sono uniti a gesù per diffondere bontà e amore. Sorbole.

E’ in occasioni come queste che negli anni mi sono resa conto di come percepisco io questi accadimenti. Ho la mia ottica, inconsciamente. Non è un fatto razionale e per questo me ne accorgo  a fatica e solo in certe circostanze, appunto.  Non che sia davvero una novità. Come ora guardo la bara al centro, appena davanti al prete che parla, anzi racconta e ancora una volta dicevo mi rendo conto che non c’è più nessun funerale, qui adesso non c’è. Non c’è questa parente, non c’è. E’ quasi come fossi al di qua di un vetro. E’ come ci fosse un muro mentale che me ne separa. Al posto suo rivedo la bara che guardavo incredula diciotto anni fa. Ricordo lo stupore che avevo dentro, la sconfitta, l’immensa solitudine che mi riempiva. Ricordo il quieto risentimento e la consapevolezza che non sarei riuscita a fare più nulla. Non riesco a sentire altro ora, perchè nulla conta. Nulla esiste per me. Non riesce ad esistere. Riesco a comprendere la situazione, i sentimenti che provano gli altri, le figlie ad esempio, ma il mio spocchioso risentimento mi argina in una bolla dove altro non riesce ad entrare. Nemmeno la comprensione, che ho sempre ritenuto enormemente falsa, dato che  possiamo comprenderci l’un l’altro, ma ognuno è interprete solo di se stesso, parafrasando Hesse.
Perchè nessuno ha vissuto come ho vissuto io.
Perchè nessuno ha dovuto vivere come ho vissuto io.
Perchè nessuno vive come vivo io.

Anche ora quindi, il mio dolore è solo mio al punto da cancellare quello degli altri e da schermarmi dalla realtà. Guardo ciò che mi circonda come se la realtà fosse un film che stanno proiettando e che non mi riguarda perchè è qualcosa che esiste per gli altri, per gli attori.

Il prete continua, gesticola, ci sa fare. Penso che è proprio il suo mestiere questo. E’ riuscito a non fare addormentare nessuno. Forse è riuscito anche a non dare troppo fastidio ai parenti stretti con la sua filosofia che come è risaputo, riempie la bocca di chi sta sempre su una barca diversa dalla tua e, appunto, pontifica.

Il prete è soddisfatto, la chiosa era perfetta. Lascia il posto ad una vecchietta che si trascina una gamba e che sfodera d’un tratto una voce chiara, come da bambina mentre intona il canto che introduce a quella parte di messa dove bisogna ripetere una frase ad ogni passo. La vecchia ha un cappello verde di lana spessa e un  cappotto grigio spelacchiato. Gli occhiali sono grossi fondi di bottigila e i suoi occhi sono come zummati dalle spesse lenti. In sostanza il tira e molla, la botta e risposta, se la cantano tra loro: il prete e la vecchia. La platea non è molto partecipe: non canta quando c’è  da canatare, non si alza mai prontamente quando deve e non è che poi si impegni gran che almeno a ripetere quella frase a pappagallo ogni volta che la vecchia ha finito di leggere.
Del resto qui siamo divisi in due gruppi: i cattolici da cerimonia e mai praticanti e i buddisti che sono qui perchè hanno in qualche modo a che fare con la defunta. Guardo le sue figlie che camminano insime uscendo dalla chiesa e mi domando come riusciranno a riappacificarsi con quella che è stata fino a pochi giorni fa la loro madre.

In occasioni come questa mi appare nitida la bolla, il vetro dietro cui guardo il mondo, il distacco dagli altri che mi circondano e il loro film.


Primo incontro, Ugo Quaini

 


Morale.

Emanciparsi dalla moralità, è essere amorali?

E’ questo un periodo niente male. L’andamento tipico di alcuni meccanismi miei tipici fa uno spettacolo da circo molto divertente. Eppure non c’è molto che io possa fare.

Mi infastidiscono gli impegni, le date fisse, le decisioni irrevocabili. Tanto non riesco a rispettarli. Di che colore metto le mutande stamattina? “Non finisco niente” è un’insegna al neon che lampeggia sempre più spesso.

Poi mi innervosisce avere sonno, la sera, perchè è il tempo per me, per leggere, per scrivere. Invece è un periodo che sono stanca, alle dieci crollo. Mi sento tanto nonna pina…ma senza tagliatelle.

Mi infastidisce la gente, non sopporto guardarla, sentire i discorsi al bar, le solite menate di lavoro, di callosità fastidiose, di razzismi di varia portata. Stamattina al bar,  due donne parlavano di 50 sfumature de sta roba  grigia ecc. che dovrebbe essere letteratura erotica secondo alcuni. Un fenomeno letterario. Sono stata sul punto di invitarle a lettere la Grandes, oppure, facilmente  reperibile on line, Valerie Tasso.

 

Valerie Tasso
“Antimanuale del sesso”
No. C’era dell’altro. Credoci fosse un bisogno che prevaleva su tutti gli altri; c’era il bisogno di essere me stessa, un essere umano che si riconferma nella propria umanità sessuata, che vuole, tramite questa, sperimentare la sua condizione più profonda, i punti nodali del suo sistema affettivo, i limiti della corporeità el’odore dell’eccesso.
C’è un altro motivo, forse un po’ più difficile da spiegare, a sostegno della mia convinzione che«ho rapporti sessuali perché sono un essere sessuato», ed è che uscire da questa causa ultima significa entrare inevitabilmente in questioni morali, e ne abbiamo abbastanza che la morale si intrometta in questioni di sesso.

link: http://www.scribd.com/doc/64236658/Valerie-Tasso-ale-Del-Sesso


Irreale realtà.

E’ un pò come stare dentro ad una sorta di acquario. Ci sono cose che percepisco snodarsi nella realtà: mi sento nella realtà. Forse perchè ne fa parte ciò che riesco a controllare.

Poi ci sono altre cose, fatti, momenti, dinamiche che non fanno parte della realtà perchè sono una mia rappresentazione. Più che altro l’andamento di qualcosa che fa su e giù dentro di me. Quegli aspetti del carattere che si fa sempre fatica a controllare, a tenere a bada.
Che sia ad una svolta lo sento perchè succede sempre quando mi ammorba la mancanza di tempo.

Certo è che, dopo la doppia curva in discesa nel verde, avvisterò da lontano casa e io e Violetta saremo felici.


Rigurgiti

Guardo la gente in versione balneare. Brutta visione, soliti gesti goffi. Camminano sgraziati conciati come pagliacci.

In spiaggia c’è un cestino ogni 20 km. Fa caldo. Un tedesco paonazzo prende dal frigo portatile una bottiglia di birra.La stappa e la ingurgita. Sembra tutto tranquillo. Le carte dei gelati svolazzano rotolando sulla sabbia rovente. Riempiamo anche il vento di rifiuti. Anche nel mare ci sono rifiuti: abbiamo raccolto conchiglie e tappi di bottiglia. Pezzi di polistirolo galleggiano. Nessuno nota nulla. Nessuno ci fa caso. Si fa presto ad adattarsi ad un nuovo concetto di normalità. Si fa presto a fare l’abitudine all’odore di merda.

Portata da una raffica di vento, arriva ad un signore tedesco la carta di un ghiacciolo arancio. Proprio sullo smartphone. Si incazza. Una signorina scosciata legge le cinquanta sfumature di grigio. Ignora il marito. Lui si guarda attorno, assente. Siamo tutti qui. A che serve non lo so. Leggo i titoloni del quotidiano ed è lo sfacelo. Dallo spread alle stelle, al prosciutto marcio usato per il ripieno dei tortellini, dai roghi dolosi dei soliti ladri ai profughi siriani.
I conti non mi tornano più. Così come le evidenti contraddizioni della nostra epoca. Una mamma rincorre suo figlio che cerca di guadagnarsi la riva. Lei gli grida: non puoi ancora fare il bagno, se aspetti buono poi ti compro il gelato. Come si educa ad essere oggetto di scambio.
Accendo una sigaretta. Mia figlia sta correndo sulla sabbia rovente. Suo papà la tiene per mano.Li vedo da lontano. Lei mi cerca con lo sguardo. Aspetto che si avvicini. Aspetto che mi scorga per vedere il suo sorriso allargarsi.


Come il libro sta all’ebook…

Stefano Montefiori dalle pagine del Corriere ieri parla di pertesa. Si, quella dell’83enne Milan Kundera che dice: “quel che mi sta a cuore in questo momento è una cosa più concreta: la biblioteca. Parte da questo Kundera per giustificare la sua “pretesa”, come la definisce il giornalista.

Partiamo dall’inizio, a giugno è stato conferito allo scrittore francese di origine cecoslovacca  un premio alla sua opera omnia conferitogli dalla Biblioteca Nazionale di Francia. Nel breve discorso a porte chiuse che lo scrittore pronuncia in occasione del conferimento del premio, dice: “non ho alcuna voglia di parlare di letteratura, della sua importanza, dei suoi valori”. Poi aggiunge “questa parola dà al premio che avete la bontà di accordarmi una strana nota nostalgica, perché il nostro tempo comincia a mettere i libri in pericolo. È a causa di questa angoscia che, da molti anni ormai, aggiungo a tutti i miei contratti, in qualsiasi Paese del mondo, una clausola in base alla quale i miei romanzi non possono essere pubblicati che sotto la forma tradizionale del libro. Affinché li si possa leggere solo su carta, non su uno schermo».

L’autore del famoso ‘L’insostenibile leggerezza dell’essere” di “Lo scherzo”, “Il valzer degli addii” e “amori ridicoli, per citarne qualcuno, ha il diritto di scegliere come viene divulgata la sua opera? La pretesa è qualcosa di anacronistico? Davanti alla tecnologia e alla sua forza centripeta di inghiottirci nelle scelte obblgate del “progresso”, cede il passo anche la volontà di un creatore, di uno scrittore che non vuole che le sue parole (come pezzi di lui) non finiscano su uno smart phone, tra le notifiche di sms, social network e via dicendo?

E’ così fagocitante l’era della comunicazione? Non è più l’era delle libertà?

“Voglio che i miei romanzi restino fedeli al libro per come lo conosco dalla mia infanzia. Fedeli al libro, e alla biblioteca”, parola di Milan Kundera.

Mi piace leggere queste convinzioni, mi piace perchè mi consola, perchè le condivido. Mi piace sapere che per qualcuno, e siamo in tanti, il libro è da possedere, conservare su uno scaffale per poterlo guardare, carezzare, risfogliare dopo un giorno, o dopo anni.

Matteo B. Bianchi, scrittore, tempo fa disse che: “Io sono un lettore di e-book. Lo sono per scelta in alcuni casi e per costrizione in altri. Continuo a preferire il cartaceo quando la lettura è un piacere. Quando il libro non solo lo voglio leggere, ma possedere e conservare alla fine della lettura, posizionarlo su uno scaffale della libreria che ho di fronte a me quando scrivo e ritrovarne il dorso colorato quando alzo gli occhi dalla tastiera. Io nei libri un po’ mi ci specchio. Sono questi libri che ho di fronte che mi hanno cresciuto e formato, è a loro che devo molto di ciò che sono. Della loro presenza fisica io sento la necessità”.


Possesso

…e allora scrivo. Finisco l’ennesima revisione della bozza del romanzo e la lascio nel cassetto. Termino alcuni racconti che mi è stato chiesto di scrivere e mi dispiace che vengano divulgati, in qualsiasi modo. E’ come se ciò che scrivo, compongo, dentro di me sia percepito come una proprietà assoluta connotata da un senso del possesso altrettanto stretto.

E’ come se associassi alla diffisione di qualcosa che ho scritto, e che trovo ben riuscito, ad una sorta di metamorfosi: la lettura “esterna” che rovina il risultato, che cambia il contenuto, che gli toglie qualcosa.

E’ il trapasso che mi risulta difficile reggere. Trapasso? perchè ho usato quesat parola?

Potrebbe essere solo una questione di timore del distacco da qualcosa cui tengo?

Sono proprio una donna impossibile.